Ivan Fischer mentre dirige l'Orchestra sinfonica di Shanghai

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National Symphony Orchestra di Shanghai

Nella cornice del’ Oriental Art Center di Pudong, un fiore di loto in vetro e cemento che ospita una sala da concerto in ognuno dei suoi petali, si e’ tenuto l’ultimo grande concerto della primavera shanghainese, Ivan Fischer alla direzione della National Symphony Orchestra del Kennedy Center. Gemma che impreziosiva la serata, Nikolaj Znaider, giovane violinista danese armato di un Guarneri del Gesu’ gia’ suonato dalle mani divine di Kreisler.

Il programma, che mostrava sicuramente alcuni limiti e mancava di un respiro più ampio, prendeva l’avvio dall’ouverture dei “Meistersingers” wagneriani: l’orchestra, efficacissima nei pianissimo, sembrava rievocare il placido tramonto sul Reno che inspirò a Wagner la composizione di questa pagina, gli ampi fraseggi degli archi, quella panneggiatura soffice e mutevole cui facevano riscontro dei fiati ben controllati. Qualche dubbio suscita invece la parte centrale e soprattutto il gran finale: non che si possa individuare nell’orchestra alcun cedimento, ma piuttosto un eccessivo compiacimento della brillantezza degli ottoni, brillanti, troppo brillanti, e della gran cassa, effetto atto a stupire piuttosto che a sedurre.

Il concerto per violino di Mendelssohn, eseguito appunto da Znaider, ha prediletto un’interpretazione ariosa e lirica, un Mendelssohn diciamo così più vicino alla leggerezza mozartiana che alle profondita’ romantiche, con soluzioni efficaci come il trascorrere senza intervalli fra l’allegro appassionato del primo tempo e l’andante del secondo. Znaider ha dato prova di notevole arte, maestro delle sfumature sconta una qualche carenza di peso e talvolta una mancanza di piglio, caratteristiche che comunque lo tengono al riparo da esagerazioni cui incorrono altri suoi celebri colleghi.

L’ultima partitura a programma era la settima di Dvorak, un pezzo che conosco poco e ricordo solo in una interpretazione di Kubelik con i Berliner. Sebbene anche in questo caso l’orchestra mostrasse un eccessivo sbilanciamento a favore degli ottoni, l’interpretazione ha raggiunto vette di intensità notevole, scosse elettrizzanti e freschezza di piglio lungo tutta la partitura, forse talvolta troppo festosa, subordinata a un direttore le cui origini ungheresi rivelano una decisa propensione per le atmosfere “festivaliere”.